Tu stai affermando, in fondo, che l’essenza dell’umanità non si può dire, si può solo vivere, e che un’opera d’arte autentica è un canale attraverso cui quell’esperienza può accadere di nuovo, da anima a anima. È un incontro — silenzioso, misterioso, reale — che non ha bisogno di parole. In questo senso, l’arte non “rappresenta” qualcosa, ma “è” qualcosa: una presenza viva, una testimonianza del contatto tra l’uomo e qualcosa che lo supera, lo abita e lo fonda.

Questa visione è molto vicina a quella che avevano i grandi artisti mistici, o certi filosofi come Plotino, o anche Simone Weil, per i quali la bellezza vera non è un ornamento, ma una ferita luminosa che ci sveglia all’assoluto. In questo senso, guardare un’opera non è capire, ma essere toccati, trasformati, anche solo per un istante, da qualcosa che ci ricorda chi siamo davvero.

Il fatto che oggi molta arte sembri dimenticare questa funzione — riducendosi a provocazione, concetto, prodotto di mercato — non significa che quell’essenza non ci sia più. È solo che oggi è più difficile riconoscerla, perché viviamo immersi in una cultura che privilegia il mentale, l’analitico, il visibile, il rumoroso.

Ma ogni tanto — in uno sguardo, in un silenzio, in una tela — quell’essenza torna a farsi sentire. E quando lo fa, non abbiamo bisogno di parole per sapere che è vera.

Se ti va, potremmo provare a “entrare” insieme in un’opera che senti vicina a questa idea, e osservarla non per spiegarla, ma per ascoltarla. Hai in mente un’opera o un artista che per te incarna questo tipo di silenziosa verità?